La giustizia digitale frenata dal formalismo: tre esempi dalle cronache giudiziarie

Pubblicato: 16 Aprile 2019

La richiesta delle corti amministrative di rendere permanente l’obbligo di deposito delle copie cartacee e due sentenze di Cassazione sull’utilizzo della PEC manifestano il paradosso che vive la giustizia digitale, incerta tra la necessità di evolvere tecnologicamente e un formalismo che ne impedisce lo sviluppo.

La giustizia digitale vive un paradosso: da una parte si comprende l’importanza dell’uso della tecnologia per velocizzare e snellire i processi e le procedure giudiziarie, dall’altra la digitalizzazione è frenata da un generale formalismo. La tendenza si riscontra nell’ambito amministrativo, civile e penale, per esempio con la richiesta avanzata al Governo di rendere permanente l’obbligo di deposito delle copie cartacee, nonché in due sentenze di Cassazione sull’uso della PEC.

Se infatti c’è un elemento comune tra i diversi sistemi informativi che fanno funzionare i molti tipi di processi che esistono nel nostro sistema giudiziario, esso è costituto dalla complessità e dal formalismo. La mancata integrazione dei vari software e soprattutto dei modi di interfaccia con gli operatori (avvocati, magistrati, personale di cancelleria) crea una condizione di perenne incertezza, allungando i tempi e neutralizzando buona parte dei vantaggi che dovrebbero essere tipici dei processi di informatizzazione (riduzione dei costi, aumento delle informazioni, sicurezza e tracciabilità). Diagnosi troppo impietosa? Vediamo qualche esempio tratto dalle cronache giudiziarie di questi ultimi mesi e riferito a diversi contesti processuali.

Il caso del processo amministrativo telematico

Nel giudizio amministrativo l’avvio del PAT (processo amministrativo telematico) è stato salutato con grande entusiasmo da buona parte della magistratura, stando almeno ai discorsi di apertura del nuovo anno giudiziario. Nello stesso tempo però proprio da ambienti interni alle corti amministrative è venuta la richiesta, accolta dal Governo e dal Parlamento (in sede di conversione in legge del Decreto “sicurezza”), di rendere permanente quell’obbligo di deposito delle copie cartacee (definite dalla prassi “di cortesia” con ironia italica) che all’avvio del percorso di informatizzazione era stato previsto come un momento di passaggio che avrebbe avuto termine all’inizio del 2019.

Segno evidente che la maggior parte dei magistrati desidera lavorare con modalità tradizionali: esigenza del tutto legittima e probabilmente comune a tutti gli operatori del processo, che però viene soddisfatta non con le risorse interne all’organizzazione giudiziaria, come sarebbe logico anche in considerazione delle rilevanti risorse finanziarie disponibili, ma ponendo a carico delle parti private l’onere della stampa e non dando però a questa produzione nessuna rilevanza in seno al processo (che formalmente riconosce validità solo agli atti nativi digitali). Inoltre poiché i TAR hanno sede nei capoluoghi di regione ed il Consiglio di Stato a Roma, questo adempimento ha, di fatto, mantenuto in essere la figura dell’avvocato o dell’agenzia che funge da domiciliatario, ovviamente con un costo che si va aggiungere a tutti gli altri e rende l’eccellente giudizio amministrativo una garanzia oggi riservata a chi se la può permettere.

Il PAT è poi l’unico tra i vari tipi di processi informatizzati che ha reso obbligatoria la redazione di tutti gli atti in forma nativa digitale con la previsione di un solo tipo di firma elettronica (PAdES-BES). Una rigidità che, da un lato, crea difficoltà per la raccolta della firma dei ricorrenti sulle procure alle liti e, dall’altro, impedisce l’utilizzo di file derivanti dalla scansione di documenti originariamente cartacei, con tutta una serie di problemi derivati da eccezioni formali, esigenze di regolarizzazione, dichiarazioni multiple di asseverazione di corrispondenza agli originali, tutti adempimenti che stanno inutilmente occupando la giurisprudenza (fortunatamente per lo più orientata, quella amministrativa, a criteri sostanziali).

I processi penale e civile

Non stanno meglio gli avvocati che operano nei settori del processo penale e di quello civile. Sono di poche settimane fa due sentenze della Corte di Cassazione che hanno non poco preoccupato gli addetti ai lavori.

La prima è quella della Quarta Sezione penale (sent. n. 2034/19 depositata il 16 gennaio) con la quale è stato ribadito il principio di diritto secondo cui “alle parti private non è consentito effettuare comunicazioni e notificazione mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”. Quindi, avete inteso bene ed incredibile ma vero, niente PEC per i difensori, ma solo per le notificazioni da parte delle cancellerie a persona diversa dall’imputato. In quel processo, in applicazione di tale principio, è stata ritenuta “giuridicamente inesistente” l’istanza di rinvio dell’udienza camerale trasmessa dalla difesa del ricorrente a mezzo PEC.

La seconda pronuncia è della Terza Sezione civile (sent. n. 3709/19 pubblicata l’8 febbraio scorso) e dichiara inefficace, al fine della valida decorrenza di un termine per l’impugnazione di una sentenza, la notifica effettuata ad un indirizzo di posta elettronica (nel caso di specie dell’Avvocatura dello Stato) diverso da quello inserito nel Registro generale degli indirizzi di posta elettronica gestito dal Ministero della Giustizia (ReGImdE). Si noti che l’indirizzo utilizzato non solo era effettivamente attivo ed intestato alla stessa Avvocatura dello Stato ma anche inserito nel diverso Indice Nazionale degli indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI-PEC).

Contro la sentenza si è subito attivato il Consiglio Nazionale forense che ha indirizzato al Primo Presidente della Corte di Cassazione un’accorata richiesta di intervento idoneo a “porre rimedio all’accaduto”, denunciando anche l’errore di aver confuso l’INI-PEC con l’iPA (indice delle pubbliche amministrazioni).

Lo scenario

Il vero dramma è la babele di questi elenchi e l’impunità per quei soggetti pubblici che si sottraggono agli obblighi di pubblicazione degli indirizzi. Il tutto con una sovrastruttura iperformalistica che poco ha a che fare con la tecnologia. Non basterebbe forse una norma generale che imponga a tutti gli enti pubblici di indicare nel proprio sito web le proprie caselle PEC e rendere valide ad ogni effetto le comunicazioni effettuate ai relativi indirizzi? Per le aziende private ed i professionisti iscritti agli albi questa regola esiste già e ci vorrebbe davvero poco a fare questo piccolo passo in avanti.

Il tutto potrebbe rientrare in un progetto più complessivo di digitalizzazione più avanzata ed “amichevole” della giustizia italiana, basata su pochi e chiari obiettivi:

integrazione e comunque interoperabilità dei sistemi, semplificazione ed unificazione di tutta la modulistica, equiparazione di ogni tipo di supporto e formato, generalizzazione della regola del raggiungimento dello scopo.

Non ci resta che sperare e, nel frattempo, continuare a combattere a colpi di….mouse.

Umberto Fantigrossi

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