Infermieri Asl, non serve l’Albo
Di Umberto Fantigrossi
Da Il Sole 24 Ore del 22 luglio 2003
Con una recente decisione (Sez. VI Penale, n. 28306/03) la Suprema corte ha assolto un gruppo di infermieri della provincia di Sondrio che esercitavano la professione come dipendenti pubblici senza essere iscritti all’Albo. La tesi della non obbligatorietà dell’iscrizione, cara ad una parte delle rappresentanze sindacali della categoria ma ovviamente avversata dai Collegi professionali, è stata adottata in questa occasione in quanto i fatti contestati riguardavano un periodo anteriore alle più recenti disposizioni in materia di professione infermieristica e ciò in applicazione del principio penalistico, di rilievo costituzionale, secondo il quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. La Suprema Corte si è infatti basata essenzialmente su alcune disposizioni del D. L.vo del Capo Provvisorio dello Stato n. 233 del 13 settembre 1946, ed in particolare sul disposto dell’art. 10 che pone l’iscrizione all’Albo degli impiegati della pubblica amministrazione in termini di mera “possibilità”. La sentenza svolge poi alcune considerazioni sulle finalità proprie del sistema ordinistico (vigilanza disciplinare, controllo delle tariffe, ecc.) che non trovano ragion d’essere nel caso di dipendenti pubblici che rispondono disciplinarmente all’amministrazione di appartenenza e che vengono compensati con una retribuzione fissa.
In realtà, per risolvere la questione si dovrebbe tener conto della normativa intervenuta successivamente. Infatti, l’articolo 1 della legge 42/1999 eliminando la qualificazione di ausiliarità per la professione infermieristica, ne definisce il “campo proprio di attività e di responsabilità” con riferimento: a) al profilo professionale (di cui al DM 739/94); b) agli ordinamenti didattici; c) al codice deontologico. Due di queste tre fonti di disciplina richiedono l’iscrizione all’Albo come elemento connaturato ed inscindibilmente connesso allo status professionale.
Si consideri inoltre che se si dovesse, per ipotesi, ritenere che il codice deontologico ed anche il profilo professionale, di cui al Dm del 1994, trovino applicazione per i soli infermieri che esercitano la libera professione, si determinerebbe un vuoto di disciplina per gli altri infermieri che a tale esercizio non fossero interessati: a loro non dovrebbero potersi applicare neppure le altre disposizioni del profilo professionale e verrebbero anche meno i presupposti di applicazione della legge n. 42/99, con conseguente totale perdita di regolazione giuridica dello status.
Anche agli argomenti, che la Cassazione ha richiamato a sostegno della non obbligatorietà dell’iscrizione all’Albo, sollevano perplessità. Nessuna ragione sistematica impedisce che il professionista pubblico dipendente, in base alla doppia appartenenza, all’ente ed all’Ordine o Collegio, risponda della propria condotta sia al datore di lavoro sia all’organismo professionale. Così come appare irrilevante, per dirimere la questione in discussione, la circostanza secondo cui per il professionista che riceve uno stipendio non sussiste il presupposto per uno dei compiti ordinistici e cioè il controllo dei compensi professionali. Le tariffe, infatti, ben possono essere limitate ad una forma di esercizio della professione e non applicarsi in caso di rapporto d’impiego.
Infine, la soluzione avanzata nella sentenza appare frutto di una visione “riduttiva” del ruolo degli infermieri nella sanità, perché certamente non si avrebbe neppure il coraggio di sostenere una soluzione dello stesso tipo, tanto meno in ambito sindacale, per altre professioni sanitarie, quale quella dei medici, cui peraltro anche si riferisce l’articolo.10 del Dlgs. Del capo provvisorio dello Stato 233/1946.
Umberto Fantigrossi